martedì 3 novembre 2009

Quale sanità ricostruire a L'Aquila?

E’ di qualche giorno fa “l’ira di Cialente” che, unitamente agli altri sindaci del comitato ristretto, ha lanciato l’allarme per le difficoltà di quell’azienda di far fronte ai bisogni di salute del territorio aquilano. In particolare i sindaci mettono in evidenza le condizioni dell’Ospedale San Salvatore. Terremotato in tutto e per tutto come evidenziano i 50 certificati medici che il personale presenta quotidianamente a partire da quel 6 aprile.



E’ però un grido di rabbia e dolore che se rimane nei termini messi in evidenza dalle notizie di stampa rischia di essere a mio avviso, in gran parte incapace di affrontare i problemi veri.

Torno alle notizie.

Cosa chiedono i sindaci: “Bisogna riaprire subito il laboratorio analisi e avviare il programma per riportare l’ospedale ai 460 posti letto originari…dopo il terremoto bisogna rifare l’ospedale dell’Aquila e ripensare la sanità sul territorio con i distretti e le residenze sanitarie assistenziali…la riabilitazione è assente, le eccellenze e le professionalità di un ospedale che fino al 5 aprile aveva il 30 per cento di mobilità attiva sono mortificate…serve un piano per riaprire l’ex Onpi all’Aquila e la Rsa a Montereale…bisogna creare due distretti, uno a Est e l’altro a Ovest…e ci devono ridare anche i 60 posti letto della clinica Sanatrix. Dobbiamo tornare ad averne 460”.

Gira che ti rigira tutto si concentra, almeno da ciò che riporta la stampa, sull’ospedale, penso però che purtroppo i problemi siano ben più complessi e gli strumenti su cui incominciare a contare per il futuro siano necessariamente diversi rispetto al passato ed un po’ meno scontati. Forse amministratori e tecnici, ma anche i cittadini devono incominciare con minor superficialità a cercare soluzioni diverse e più efficaci e provare almeno ad immaginare di sperimentare percorsi nuovi per dare seriamente risposte ai bisogni ed ai problemi di salute.

E’ questa una esigenza che si pone a L’Aquila, ma è con tutta evidenza una esigenza che si pone per tutta la realtà sanitaria regionale abruzzese.

Ma torniamo alla specifica questione posta dalla notizia.

L’ospedale de L’Aquila, incredibilmente (sig!) danneggiato dal terremoto del 6 aprile, va sicuramente ripristinato e dovranno essere riattivati al più presto i suoi servizi. All’indomani del terremoto ci era sembrato assurdo che strutture strategiche per poter affrontare un’emergenza, quali Prefettura ed Ospedale, fossero crollate o rese inagibili. Era il segno di una cultura del pressapochismo e dell’incuria, ma anche di sguardi incapaci di arrivare ad un orizzonte, di immaginare uno scenario futuro: che L’Aquila sia in zona sismica non è cosa emersa dopo il 6 Aprile e anche le scellerate furbizie della politica capaci di declassarne il rischio sismico, non avrebbero dovuto neppure far immaginare la possibilità di esporre due strutture di tale importanza per l’organizzazione dell’attività di soccorso e di gestione di una qualsiasi emergenza, al rischio di essere ridotte all’inagibilità ed alla conseguente impotenza.

Vivo in una città diversa di questa regione e non so la Prefettura, ma quanto all’Ospedale non ci metterei la mano sul fuoco, come si suol dire, sulla sua stabilità e solidità!

Il fatto è che ci troviamo a dover vivere all’interno di una realtà che rinuncia, forse anche per incapacità e ignoranza oltre che per indolenza, a cercare di proiettarsi nei tanti scenari futuri: coloro che hanno responsabilità nello scegliere e nel decidere, lo fanno pensando a malapena all’oggi, figurarsi quale sia il ruolo affidato al domani!

Purtroppo anche noi cittadini, finiamo con l’assumere gli stessi atteggiamenti. Purtroppo!

L’ospedale quindi deve essere rimesso in condizione di funzionare, anzi l’ospedale doveva costituire una delle priorità su cui H24, come si dice, si sarebbe dovuto lavorare, proprio perché struttura dell’emergenza ed il terremoto ha costituito una emergenza da quel 6 aprile (e forse anche prima di quella data).

Ma c’è altro su cui ragionare ora.

La ricostruzione del territorio aquilano sta avvenendo in maniera da determinare una sostanziale dispersione degli insediamenti. Ad oggi non appaiono ipotesi di una ricostruzione di una struttura urbana centrale ed il centro storico è di fatto fuori da ogni ragionamento. E’ un progetto devastante forse ancor più del terremoto contro il quale non appare che una debole opposizione: i cittadini già “deportati” e dispersi, le rappresentanze politiche consenzienti o annichilite ed insignificanti (non solo in senso quantitativo, ma soprattutto qualitativo).

In questo quadro che pure si dovrà trovare il modo di contrastare per evitare di abbandonare una città, la sua storia, il suo vissuto sociale, la sua cultura, la sua rete di relazioni fatta delle migliaia di vite che si sono intrecciate e che ora rischiano di cadere in un isolamento capace solo di produrre disagio e “malattia”, non si può e non si deve cadere nell’idea che le soluzioni siano le solite, quelle che erano già inadeguate il 5 aprile perché già allora non raggiungevano i bisogni veri e concreti delle persone.

La sanità abruzzese si è caratterizzata da sempre per essere costituta quasi esclusivamente da farmaci ed ospedali e, praticamente, nulla più. Una rilevazione effettuata dall’Agenzia Sanitaria Regionale nel 2006, evidenziò che complessivamente gli operatori sanitari e sociali impegnati nelle attività di assistenza domiciliare erano complessivamente, per l’intera regione, un paio di centinaia. Sul territorio i distretti arrancano e non riescono a far fronte all’insieme della domanda, soprattutto quando questa è legata alla disabilità e non sia puro consumo di prestazioni sanitarie. Provi una qualsiasi persona a cercare risposta alla esigenza, solo per fare un esempio banalissimo, di vedersi somministrare una terapia farmacologica a domicilio da professionisti sanitari. E’ pressoché impossibile, a meno di rivolgersi a chi svolge la libera professione privatamente (e quindi con un costo tutto a carico del cittadino), e ciò non solo, ovviamente, nelle aree del cratere del terremoto.

In realtà il porre l’accento sul bisogno di ospedale e solo su quello (mi viene però da dire sui posti letto perché è “disperato” il grido “dobbiamo averne 460”) marca subito e per l’ennesima volta la direzione ed il percorso su cui solo sembra ci si sappia muovere in Abruzzo: ospedale e solo ospedale.

E a tutti i problemi di salute che invece verranno vissuti all’interno dei futuri MAP e MAT, nei villaggi CASE sparsi nella esplosione della città de L’Aquila terremotata cosa e chi dovrà dare risposte? I soli medici di medicina generale terremotati e magari trasferiti negli alberghi sulla costa? Ed ai bisogni determinati dalla disabilità fisica che si rinchiude in quelle mura più o meno provvisorie chi farà fronte?

Ma viene anche da aggiungere: alla disabilità delle relazioni, degli affetti feriti, al bisogno di sostegno ed alla necessità di preservare la vicinanza delle famiglie in presenza delle mille cronicità rese ancor più importanti dalla incertezza determinata da una terra che trema e da una ricostruzione che per molto tempo ancora non permetterà di avere chiare prospettive, con cosa si risponderà? Con una visita specialistica distrettuale e qualche giorno di ricovero ospedaliero?

Forse ci si dovrà sforzare un po’ di più, magari veramente cercando di capire quali siano i bisogni e avviando, per una volta, la sfida vera che il sistema della salute e della malattia deve affrontare: la capacità di diventare diffuso, così come è diffuso il modo ed il luogo di manifestarsi di gran parte della malattia e dei bisogni di salute oggi; la capacità di investire risorse e professionalità sul territorio, in prossimità ai luoghi di vita delle persone, facendo tesoro dei loro punti di forza e di debolezza.

E’ uno sforzo indispensabile. Ancora di più ora e nel futuro a L’Aquila.

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